Si può imparare a vivere?
Imparare a vivere…Ad un certo punto del tempo bisogna domandarsi se esistono ricette giuste per farlo, e per farlo nel migliore dei modi. Se c’è una prescrizione del come vivere, e di come apprendere a farlo per vivere bene. Ma esiste un modo univoco? Una sola maniera per tutti? Un afferrare la vita come fosse un concetto universale? Come un consiglio da manuale? Il tempo della riflessione è anche quello del silenzio…della vita vissuta come il nuotare dei pesci che ignorano cosa sia l’acqua….dell’inciampo su quella domanda fondamentale che nasce dalla crisi, proprio nel momento in cui è più facile accorgersi di essere in un corpo quando il corpo duole, si ammala, invecchia…Il tempo della vita matura, che si ripiega su se stessa e si pone la domanda sul fine e sulla fine…Perché, si può riparare una vita? Una vita sbagliata, una vita persa, una vita smarrita? Cosa significa vivere? Cosa è una vita “pienamente vissuta”? Cosa una “vita autentica”? Parafrasando Montaigne ed Heidegger si potrebbe giungere alla conclusione che imparare a vivere vuole dire apprendere a filosofare, accettando l’idea di dover morire. Perché, in fondo, esistere vuol dire proprio questo. E si impara a vivere morendo, dal momento che si inizia a morire già dal primo istante della propria vita. Paradossalmente, tanto più si impara a vivere quanto più ci si avvicina alla morte, quanto più il tempo si fa breve, per necessità, e diminuisce quello che è disponibile per la vita autentica. Ma cosa è una vita autentica? Una vita autentica si fa tale attraverso la scrittura, che la rende immortale, e la eternizza, permettendo la sopravvivenza della memoria, ai posteri, di chi se ne va? O è autentica la vita di chi la spende in compagnia degli altri, dei propri cari? Vivere è sempre un sopravvivere a se stessi, sebbene l’errore, lo smacco, la caduta, il cedimento siano comunque dietro l’angolo, in attesa, a tendere il tranello, l’agguato, che potrebbe anche essere letale. Ma per sopravvivere in maniera autentica non esiste altra strada che quella della convivenza. Bisogna saper convivere con gli altri, apprendendo dagli altri attraverso l’esempio, che ne è testimonianza. Ma anche attraverso il naufragio del vice vivere, che è l’alienazione del vivere la vita degli altri, o del vivere la propria come se non lo fosse, ed appartenesse ad un altro. La sola certezza che resta è che nulla sopravvive se non ciò che è stato donato, se non ciò che è stato tradotto in amore per l’altro. Ciò che sopravvive è il ricordo che di noi resta in chi abbiamo amato. Nel ricordo sopravvivremo amati o odiati. Vivere è il tempo del presente, in cui è possibile convivere con gli altri, in maniera autentica, per previvere, nella “potenza immane del progetto” e del futuro, che resiste agli assalti del tempo; e per sopravvivere alla morte, nella memoria del passato, attraverso gli scritti ed il ricordo degli altri, e di quanti resteranno dopo che noi ce ne saremo andati per sempre. Ma esiste una resurrezione? È possibile una rinascita? A noi umani non è dato di sapere, perciò è bene affidarsi a quella immortalità laica che è il ricordo che di noi lasceremo, l’amore che avremo saputo donare, ciò per cui ci siamo spesi. La sola immortalità cui ci è dato di poter, con certezza, aspirare, è nelle opere che avremo saputo costruire, e che parleranno di noi anche in nostra assenza. Sebbene questo non ci rinfranchi e non ci consoli dal dover sospendere l’abitudine alla vita che, quanto più si fa matura e vecchia, tanto più ci tiene a sé legati con la sua seduzione. I vecchi amano la vita perché sanno di non averne troppa a disposizione. La sola consolazione che fa sperare nell’eternità è la certezza di aver dato qualcosa, di aver fatto qualcosa, di aver lasciato qualcosa. Ma niente è più consolante del sapere di poter continuare a vivere in chi abbiamo amato. E tra questi ci sono i figli in primis. Imparare a vivere è abbracciare quella continuità che lega il passato al presente e al futuro nelle generazioni che da noi provengono e che ci sopravvivranno. Apprendere a convivere può avere un senso soltanto nella prospettiva della costruzione di un futuro di pace, in politica, e nel mondo sociale, culturale, familiare, dei nostri simili, in cui gli affetti più intimi che ancora ci tengono legati alla vita, si possano aprire ad una dimensione umanitaria più ampia in senso universale, abbracciando l’interezza del tutto. Perché la nostra vita umana acquista un significato soltanto se intesa in un contesto di relazioni e di valori che sia molto più ampio di quelli che un singolo può darsi nel vivere, in modo solitario ed appartato, la sua personale esperienza esistenziale. La quale, se presa nella sua individualità, non ha alcun senso e nessun pregio…“nulla nessuno in nessun luogo mai”….Ma è proprio il porsi questo quesito, se sia possibile o meno apprendere la vita in modo giusto, imparare cosa voglia dire vivere una vita autentica, che fa di noi esseri umani qualcosa di diverso dalle altre creature viventi, animali compresi. Il gatto e il cane vivono, senza sapere di farlo. Esattamente come fanno le macchine artificiali quando eseguono un programma senza esserne coscienti. Ed è proprio la coscienza ciò che ci distingue dagli animali e dagli automi. L’uomo sa cosa sta facendo e se ne chiede il perché, originando così il pensiero e la riflessione filosofica, che comunemente chiamiamo ragione in senso lato. Ed è proprio questa faccenda della coscienza che va approfondita, perché è questa la funzione del cogito cartesiano. A noi umani non basta di vivere, come invece ai pesci basta di nuotare tutta la vita in acqua senza sapere cosa sia l’acqua. Ed il domandarci cosa voglia dire vivere, se esista un modo autentico per farlo bene, se finalmente si possa imparare ad apprendere l’arte del vivere, è un problema filosofico, appunto perché è umano, troppo umano. Il timore che le macchine possano un giorno prendere il potere è una fallacia del ragionamento. Perché le macchine, persino l’IA, quella che oggi chiamiamo intelligenza artificiale generativa, come Chat GPT, sono prive di coscienza, e necessitano sempre di un umano che le programmi e le implementi. Almeno, sino ad ora. Il problema potremmo dovercelo porre in un futuro, non sappiamo quanto lontano dalla nostra contemporaneità, semmai le macchine dovessero sviluppare un’autonomia di pensiero ed una coscienza, indipendenti dagli esseri umani che le producono e le programmano. Ma la macchina rimane un meccanismo, mentre gli esseri viventi sono degli organismi. E la differenza tra il meccanismo e l’organismo è che il primo viene animato da una spinta esterna, e si può accendere e spegnere illimitatamente; mentre il secondo vive di un movimento intrinseco, ed è o vivo o morto. E dalla morte non esiste ritorno…
Un sentito grazie a Maurizio Ferraris e al suo bel libro Imparare a vivere, che mi hanno permesso di esternare, facendole mie, queste profonde riflessioni sulla vita e sul senso dell’esistenza umana. È proprio vero che la caduta in se stessa non è mai soltanto un accidente, perché può diventare un’opportunità per fare silenzio dentro di sé e permettere la nascita del pensiero, come accade sempre a chi si rialza, dopo ogni inciampo che la vita riserva a tutti gli esseri umani. La maturità sostiene con l’esperienza la durezza della prova. Imparare a vivere era il libro che mancava nella bibliografia di un grande filosofo della contemporaneità, quale è Maurizio Ferraris. Adesso c’è. Questo articolo trae spunto proprio dalla sua lettura, ma anche dall’ascolto dei video online e dalla lettura di qualche suo articolo sull’IA, oltre che dalla partecipazione a Colloquia, l’ultima edizione foggiana del mese di Marzo 2024, sui rischi dell’intelligenza artificiale generativa, cui il filosofo ha partecipato discutendo una sua relazione.
Bibliografia:
1. Maurizio Ferraris, Imparare a vivere, Laterza, Bari, Febbraio 2024
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